Corte di Cassazione, 11859
Premesso che il criterio della correttezza professionale di cui al n. 3 dell’art. 2598 codice civile non deve essere più ricondotto, come in passato si è fatto, ad una visione corporativa che finirebbe con il legittimare una categoria professionale ad elaborare propri sistemi di riferimento generale imponendoli alla collettività ma deve essere ricondotto alla nozione di concorrenza ed alla sua posizione anche costituzionale nel sistema per dare luogo ad un “valore guida” da considerare leso ogni qualvolta l’equilibrio delle condizioni del mercato venga compromesso fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge o fuori delle funzioni alle quali le eccezioni stesse debbono rispondere, non sussiste alcuna contraddizione tra la testé espressa linea di pensiero che è sottesa a tutta la giurisprudenza della Suprema Corte e la sottolineatura, anch’essa giurisprudenziale, del carattere residuale dell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2598, intendendosi con tale residualità che è possibile fare ricorso a tale previsione solo quando le ipotesi espressamente previste non siano ravvisabili: con il corollario che, essendo le fattispecie tutte di cui ai tre numeri dell’art. 2598 diverse tra loro, ben può un comportamento essere ricompresso in una sola di esse e non nelle altre (in applicazione di questo articolato principio la Suprema Corte ha approvato la sentenza impugnata che ha qualificato come atto professionalmente scorretto ed illecito ai sensi del n. 3 dell’art. 2598 l’invio di lettere di diffida dirette a far valere un brevetto della cui nullità si era consapevoli ancorché il comportamento in questione non potesse essere qualificato di denigrazione commerciale a causa della mancata prova della comunicazione o della potenziale comunicazione al pubblico delle diffide suddette).