Le disposizioni relative alle azioni giudiziarie (Codice della Proprietà Industriale - c.p.i., Codice Civile - c.c., Codice Penale - c.p., Codice della Procedura Civile, c.p.c.) si applicano a tutti i diritti di proprietà industriale. In base alla definizione dell'art. 1 c.p.i. con l'espressione proprietà industriale si comprende marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti a semiconduttori, informazioni aziendali riservate e nuove varietà vegetali. In termini generali l'uso non autorizzato del diritto di proprietà industriale costituisce contraffazione; la relativa azione civile viene indicata genericamente come azione di contraffazione, indipendentemente da quali siano le domande concretamente proposte: di accertamento, di inibitoria, di descrizione, di sequestro, di risarcimento del danno, di pubblicazione della sentenza. Per quanto riguarda specificamente l'esclusiva di far commercio, un limite è dato dal principio dell'esaurimento: secondo tale principio il diritto del titolare si esaurisce con il primo atto legittimo di messa in commercio di un prodotto tutelato, e non permette al titolare del diritto di privativa industriale di controllare i passaggi successivi della sua circolazione . Si ha legittima messa in commercio quando la stessa è realizzata dal titolare del diritto, o da un terzo, con il suo consenso. Se, però, la prima messa in commercio è illegittima, il principio d'esaurimento non opera e ogni successivo atto di circolazione è anch'esso illegittimo.
Legittimati a proporre dette azioni legali sono il titolare del diritto di proprietà industriale, o della relativa domanda, il licenziatario e l'usufruttuario. Legittimati passivamente sono tutti coloro ai quali può essere imputato un atto che costituisca violazione della c.d. esclusiva, o che concorrono nell'illecito, o che sono soggetti a responsabilità oggettiva (come nel caso dell'imprenditore per l'attività dei suoi dipendenti, ex art. 2049 c.c.). La giurisdizione in materia di proprietà industriale e intellettuale è disciplinata dall'art. 120 c.p.i.
In Italia le azioni in materia di Proprietà Industriale, quali brevetti, marchi, modelli, know-how, nomi a dominio e concorrenza sleale, si propongono davanti alle Sezioni Specializzate in materia d'Impresa. Dette Sezioni Specializzate sono presenti presso le Corti d'Appello dei capoluoghi di ogni Regione Italiana, con l'eccezione della Lombardia che ne ha 2 (Milano e Brescia) e della Valle d'Aosta che è accorpata al Piemonte. Le Sezioni Specializzate sono: Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Campobasso, Catania, Catanzaro, Firenze, Genova, L'Aquila, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Potenza, Roma, Torino, Trento, Trieste, Venezia. Per le controversie sulla proprietà Intellettuale, nelle quali è parte una società estera, cioè "una società, in qualunque forma costituita, con sede all'estero, anche avente sedi secondarie con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato", sono competenti undici sezioni specializzate, precisamente: Bari (per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di: Bari, Lecce, Taranto e Potenza), Cagliari (per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Cagliari e Sassari), Catania (per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Caltanisetta, Catania, Catanzaro, Messina, Palermo, Reggio Calabria), Genova (per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Bologna e Genova), Milano (per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Brescia e Milano), Napoli (per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Campobasso, Napoli e Salerno), Roma (per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Ancona, Firenze, L'Aquila, Perugia e Roma), Torino (per gli uffici giudiziari ricompresi nel distretto di Torino), Venezia (per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Trieste e Venezia), Trento e Bolzano (per gli uffici giudiziari ricompresi nei rispettivi distretti). Secondo i casi, si propongono davanti alla Sezione Specializzata competente in merito alla residenza o al domicilio del convenuto, o presso quella che sottende il luogo in cui l'attore ha domicilio o residenza, ovvero presso quella che sottende il luogo ove è intervenuto il fatto lesivo, o presso la Sezione Specializzata di Roma.
L'art. 2697 c.c. impone a chi vuole fare valere un diritto in giudizio (attore) l'onere della prova dei fatti che ne costituiscono il fondamento. Pertanto è il titolare della privativa industriale che deve fornire al giudice la prova della contraffazione posta in essere dall'altra parte (convenuto). L'art. 121 c.p.i., pertanto, dispensa l'attore dall'onere di provare la validità del diritto anche se, come si vedrà più avanti, la giurisprudenza tende a negare che detta presunzione di validità possa fondare una decisione di concessione di provvedimenti cautelari. Per altro lo stesso art. 121 c.p.i prevede un'attenuazione dell'onere probatorio della parte che abbia fornito seri indizi della fondatezza della propria domanda ed abbia individuato documenti, elementi o informazioni detenuti dalla controparte che confermino tali indizi.
L'attore può fornire la prova della contraffazione in due modi:
Con specifico riferimento ai marchi la norma precisa che si ha contraffazione non soltanto quando vi è "rischio di confusione", ma anche quando esiste "rischio di associazione" tra due marchi. La prima formula si riferisce all'ipotesi in cui l'apposizione del marchio altrui, sul prodotto di un terzo, fa credere al pubblico che i prodotti provengono dalla stessa impresa; la seconda, invece, all'ipotesi in cui il pubblico sia indotto a credere che i prodotti provengono da due imprese distinte, tra le quali, però, intercorrono rapporti di licenza, o comunque di autorizzazione all'uso del marchio. Il rischio di confusione o di associazione presuppone l'identità, o almeno la confondibilità, tra i segni e l'identità, o affinità, tra i prodotti. Per quello che riguarda la confondibilità tra i segni la giurisprudenza ritiene che per stabilire se c'è confondibilità, bisogna tenere conto dell'impressione di insieme che il raffronto tra i due segni può suscitare. Non si deve procedere all'esame comparativo tra due marchi in via analitica, ovvero attraverso un esame particolareggiato e una separata valutazione di ogni singolo elemento, ma in via unitaria e sintetica, mediante un apprezzamento complessivo che tenga conto degli elementi salienti. L'accertamento della confondibilità va fatto, poi, tenendo conto dell'attenzione e della cultura del consumatore medio di quel determinato tipo di prodotto. Quindi, nel caso di prodotti di largo consumo, destinati ad una clientela indifferenziata e di prezzo poco elevato, nell'acquisto dei quali si ritiene meno presente l'attenzione dell'acquirente, si potrà affermare la confondibilità anche in caso di relativa distanza tra i due segni; nel caso di prodotti costosi, destinati ad una clientela qualificata e più attenta, la confondibilità potrà negarsi anche in ipotesi di notevole vicinanza, ritenendosi che l'attenzione dell'acquirente sia tale da impedire che egli realmente si confonda. Altra regola è che il confronto non va realizzato tra i due segni, considerati entrambi presenti, ma tra un segno, quello del preteso contraffattore, e il ricordo dell'altro, poiché è questa la situazione che si verifica normalmente all'atto dell'acquisto. Bisognerà, infine, confrontare i marchi nel loro aspetto grafico, fonetico, ideologico, sicchè ad esempio, la confondibilità non potrà essere esclusa se le due parole messe a confronto graficamente si differenziano, ma sono foneticamente vicine, o viceversa. Perché si abbia violazione del diritto di marchio è necessario che alla confondibilità tra segni si aggiunga l'identità o affinità tra prodotti contrassegnati. È questo il principio cella della c.d. specialità o relatività della tutela del marchio, già espresso nell'art. 2569 c.c., secondo cui il titolare del marchio "ha diritto di valersene in modo esclusivo per le cose per le quali è stato registrato". Un discorso a parte deve essere fatto per il marchio famoso, cioè al marchio "che gode di rinomanza". Il diritto di esclusiva su un marchio famoso è, infatti, più ampio di quello concesso ai marchi "normali". Si tratta di una protezione svincolata dal criterio di affinità, merceologicamente illimitata. Ciò in quanto il marchio famoso non è protetto soltanto contro l'uso da parte di terzi per prodotti affini, ma anche contro l'uso per prodotti non affini, se l'uso da parte del terzo si svolge "senza giusto motivo" e consente al terzo di trarre indebitamente "vantaggio ... dalla rinomanza del marchio", o "reca pregiudizio" al marchio stesso (art. 120 c.p.i.).
Nel caso di descrizione giudiziaria il Giudice emette, anche senza ascoltare le ragioni del convenuto (cioè inaudita altera parte), preteso contraffattore, un decreto con cui dà mandato all'Ufficiale Giudiziario di descrivere gli oggetti che si reputano contraffatti presso la sede del fabbricante, o presso la ditta indicata dal ricorrente. Il contenuto del decreto definisce l'ambito operativo dell'Ufficiale Giudiziario. L'Ufficiale Giudiziario può farsi assistere, ove occorra, da uno o più periti, mentre le parti possono chiedere di essere autorizzate ad assistere, anche per mezzo di rappresentanti, o ad essere assistite da persone di fiducia (art. 130 c.p.i.). La stessa procedura si segue nel caso di sequestro. Qualora la descrizione abbia ad oggetto un procedimento, ovvero un sistema operativo, essa può costituire una grave lesione ai diritti del preteso contraffattore specialmente qualora detto procedimento, o detto sistema, comprenda aspetti che si riconnettono a conoscenze tecniche e/o tecnologiche segrete. In tal caso l'Ufficiale Giudiziario deve tenerne conto se ciò non è stato già previsto nel decreto, apprestando le opportune cautele nell'esecuzione del provvedimento. La descrizione, una volta effettuata, può essere depositata presso la Cancelleria del Tribunale e costituisce prova nel successivo giudizio.
Spesso il conseguimento della tutela giurisdizionale non è rapido, Poiché il procedimento ordinario richiede un tempo eccessivamente lungo. Vi è pertanto il pericolo che, durante questo ritardo, le condizioni di fatto mutino tanto da rendere la soddisfazione del diritto, alla quale il processo è preordinato, estremamente difficile od impossibile, o comunque di fatto inutile, o che si verifichino gravi danni risarcibili solamente per equivalente (ovvero in denaro). Per evitare tali inconvenienti il legislatore ha riconosciuto, al soggetto interessato, il potere di richiedere determinati provvedimenti cautelari, sia anteriormente che durante il giudizio di merito. L'azione cautelare, tendendo ad assicurare una difesa preventiva del diritto, garantisce le condizioni necessarie affinché possa esserne successivamente conseguita la tutela nel giudizio di merito. I provvedimenti cautelari sono caratterizzati dalla provvisorietà, in quanto rimangono travolti dal provvedimento definitivo, dalla sommarietà (fumus boni iuris), dal fondato timore che nell'attesa della tutela finale vengano a mancare le condizioni perché essa si realizzi (periculum in mora), nonché dalla strumentalità. Il giudice che emette il provvedimento cautelare deve stabilire quali siano le modalità di attuazione della misura cautelare. Tali modalità costituiscono un elemento strutturale del provvedimento cautelare che deve contenere la specifica indicazione dei modi attraverso i quali gli effetti provvisoriamente assicurati debbano incidere sul rapporto sostanziale dedotto. Nel caso in cui il giudice non definisca nello stesso provvedimento cautelare tali modalità esecutive, su ricorso della parte interessata, il medesimo giudice dovrà disporre i modi attraverso i quali la misura dovrà avere concreta realizzazione.
Gli artt. 128 e 129 c.p.i. prevedono due speciali provvedimenti cautelari (la descrizione e il sequestro) che vanno a colpire gli oggetti prodotti in violazione delle privative industriali e dei mezzi adibiti alla loro produzione, ovvero solo dei mezzi di produzione. Come sopra accennato, la descrizione ha la funzione di precostituire la prova della contraffazione. Detta natura assimila la descrizione ai c.d. provvedimenti di istruzione preventiva. Molto spesso la descrizione è il solo mezzo a disposizione dell'attore per acquisire la prova, soprattutto nei casi in cui la contraffazione non sia desumibile dall'esame del prodotto finale. Sul punto bisogna ricordare che la disciplina delle misure cautelari è stata novellata dalla legge 353/90 e dalla legge 477/92, che hanno introdotto un modello di procedimento cautelare comune a tutti i provvedimenti cautelari. Stando a quanto dispone l'art. 669 quaterdecies c.p.c., la nuova disciplina si applica al sequestro ed all'inibitoria, ma non alla descrizione. Infatti, detta nuova disciplina dichiara applicabili le nuove disposizioni, in quanto compatibili, anche ai provvedimenti cautelari previsti da leggi speciali, ma non ai provvedimenti di istruzione preventiva. Il c.p.i. detta una disciplina speciale in materia di descrizione alla quale afferma applicabili le norme dettate dal codice di procedura civile in tema di procedimenti di istruzione preventiva ossia gli articoli 669 e ss. c.p.c. Competente a pronunciare il provvedimento con cui si dispone la descrizione è il Tribunale. Ora, se la domanda viene inoltrata prima dell'inizio della causa di merito, dev'essere proposta al giudice competente a conoscere nel merito. Se il giudice italiano non è competente a conoscere la causa nel merito, la domanda si propone al giudice che sarebbe competente per materia o valore, del luogo in cui deve essere eseguita la descrizione. Il giudice competente dispone la descrizione dopo aver assunto "sommarie informazioni e sentita, ove lo creda opportuno, la persona contro cui il ricorso è proposto". L'esecuzione del provvedimento comporta l'accesso dell'Ufficiale Giudiziario, con l'assistenza di uno o più periti, se necessaria, e alla presenza degli interessati, se autorizzati, nell'azienda del preteso contraffattore o presso chi detiene quanto si presume essere in contraffazione. Poiché chi subisce la descrizione può incorrere in danni per l'interruzione del lavoro e per la rivelazione di segreti aziendali, il giudice, nel disciplinare le modalità di assunzione della prova, deve tenere in considerazione gli eventuali inconvenienti e disporre adeguate garanzie a favore di tale soggetto. La descrizione è destinata a perdere ogni efficacia qualora entro il termine di trenta giorni dal provvedimento non sia avvenuta l'esecuzione e non sia instaurato il giudizio di merito. Entro quindici giorni dalla conclusione delle operazioni di descrizione, a pena di inefficacia, deve essere notificato a coloro nei confronti dei quali il decreto è stato emanato (art. 130 c.p.i.) copia del ricorso e del provvedimento del giudice. L'art. 130 c.p.i. prevede, accanto alla descrizione, il sequestro, che ha la funzione primaria di evitare la circolazione dei prodotti realizzati tramite la contraffazione. A questa funzione si aggiunge quella di assicurare al successivo giudizio di merito la prova della violazione del diritto. Mediante il sequestro viene imposto un vincolo di indisponibilità sulle cose oggetto dello stesso, spossessando il preteso autore della violazione. La competenza a pronunciare il provvedimento di sequestro anteriormente alla causa è attribuita al "giudice competente a conoscere del merito" (art. 669 ter c.p.c.), di qualsiasi luogo ove è avvenuta la contraffazione. Nell'ipotesi di sequestro in corso di causa, competente sarà il giudice dinanzi al quale pende la causa di merito (art. 669 quater c.p.c.). Il giudice provvede sulla domanda con ordinanza, dopo aver sentito le parti ed omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio. Se la domanda viene accolta, il procedimento dev'essere collegato al processo di merito che, se non è ancora iniziato, dev'essere promosso dalla parte che ha ottenuto il provvedimento, nel termine perentorio fissato dal giudice designato che non può essere superiore ai trenta giorni. In caso di omissione del giudice nella fissazione del suddetto termine, si applica il termine legale di trenta giorni (art. 689 octies c.p.c.). Se il processo di merito non inizia o si estingue, il provvedimento cautelare perde efficacia (art. 669 novies c.p.c.). Nei casi urgenti, cioè quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l'attuazione del provvedimento, il giudice, con decreto motivato, può provvedere al sequestro prima dell'audizione delle parti (c.d. sequestro inaudita altera parte). In tal caso il ricorso con cui si chiede il provvedimento ed il decreto del giudice devono essere notificati dal ricorrente in un termine perentorio non superiore a otto giorni. Tale termine perentorio si triplica se la notifica dev'essere fatta all'estero (art. 669 sexies c.p.c.). In questo caso, la prima udienza di comparizione delle parti deve essere fissata in un termine non superiore ai quindici giorni dalla pronuncia del decreto nel caso in cui le parti domiciliano in Italia; se le parti domiciliano all'estero, il termine viene triplicato. A tale udienza il giudice con ordinanza, su istanza di parte, conferma, modifica, o revoca i provvedimenti emanati con il decreto nel caso in cui accerti dei mutamenti nelle circostanze che avevano determinato il provvedimento cautelare (art. 669 decies c.p.c.). La concessione del sequestro può essere subordinata al versamento di una cauzione, la cui mancata prestazione è da considerarsi, pur nel silenzio della legge, causa di inefficacia del sequestro. Contro l'ordinanza con la quale è stato concesso un provvedimento cautelare, la parte interessata può fare reclamo al Giudice competente. Il reclamo generalmente non sospende l'esecuzione del provvedimento, ma se il Giudice ritiene che il provvedimento adottato arrechi grave danno, può disporre con ordinanza non impugnabile la sospensione dell'esecuzione del provvedimento cautelare o subordinarla alla prestazione di una congrua cauzione (art. 669 terdecies c.p.c.). Il sequestro e la descrizione possono interessare sia i beni del presunto contraffattore, che beni di proprietà di terzi, purché non adibiti ad uso personale (nel caso della descrizione), e purché il proprietario ne faccia commercio o ne tragga vantaggio economico (nel caso del sequestro). Il concetto di uso personale si riferisce a quell'uso di quanto contraffatto che, benché illecitamente fabbricato, realizza alla persona in sè un'utilità che deriva dal possesso della cosa come tale, senza però che detta ne tragga un vantaggio economico diretto. La finalità commerciale che giustifica il provvedimento di sequestro si ha quando dell'oggetto contraffatto viene fatto un uso commerciale, industriale o agricolo. L'art. 131 c.p.i. prevede che, nel corso del giudizio di contraffazione, la parte interessata possa chiedere che venga disposta, previo versamento di una cauzione, l'inibitoria della fabbricazione o dell'uso dei prodotti contraffatti. Il provvedimento del giudice viene disposto con ordinanza e può essere confermato o revocato con la sentenza che decide il merito e definisce il giudizio. Secondo un recente orientamento, si ritiene che con l'inserimento degli artt. 669 bis e seguenti nel codice di procedura civile, le norme dell'art. 131 c.p.i. siano applicabili in quanto ancora vigenti unicamente per quanto attiene alla previsione della misura cautelare dell'inibitoria e all'identificazione dei suoi presupposti e al contenuto del provvedimento con conseguente abrogazione delle norme sulla competenza e sul procedimento applicandosi le norme di cui agli artt. 669 bis e ss c.p.c.
Nella prassi, comunque, l'inibitoria è generalmente richiesta e concessa dopo il sequestro, durante il giudizio di convalida di questo. In proposito, però, si deve escludere che l'esistenza del diritto dell'attore si possa far discendere automaticamente dalla c.d. presunzione di validità della privativa industriale: il giudice deve sempre effettuare un sommario accertamento della validità di detto brevetto.
L'art. 132 c.p.i. predispone un regime di protezione cautelare della domanda di brevetto. La norma stabilisce che: "I provvedimenti di cui agli artt.128, 129 e 131 possono essere chiesti dal momento in cui la domanda è resa accessibile al pubblico, oppure nei confronti delle persone alle quali la domanda è stata notificata". La domanda di brevetto è, di norma, resa accessibile al pubblico diciotto mesi dopo il deposito. Al fine di abbreviare tale periodo, il titolare della domanda può:
L'art. 132 c.p.i. consente al titolare della domanda della privativa industriale di instaurare il giudizio di contraffazione. Se così non fosse, non si spiegherebbe l'esplicita previsione della fruibilità dell'inibitoria in corso di causa, prevista dal richiamo all'art. 131 c.p.i. D'altra parte l'ottenimento dei provvedimenti di sequestro o di descrizione impone l'avvio del giudizio di merito entro un termine breve dall'esecuzione del provvedimento. Ciò può porre dei problemi poiché la concessione o registrazione della privativa industriale, se non è da considerarsi condizione processuale del giudizio di contraffazione, è, secondo una giurisprudenza costante, fatto costitutivo del diritto di privativa. Si ritiene, quindi, che il giudizio debba essere sospeso in base all'art. 295 c.p.c., se la procedura di concessione o registrazione non giunge a conclusione prima della conclusione del giudizio stesso.
I provvedimenti definitivi costituiscono, in sostanza, il contenuto della sentenza con cui si accerta la contraffazione. Tre sono le sanzioni a carico del contraffattore:
Esse possono avere carattere preventivo o risarcitorio ossia mirano a impedire il protrarsi dell’attività illecita, ovvero risarcire i danni subiti dal titolare del brevetto.
L’inibitoria è disciplinata dall’art. 131 c.p.i. in cui si stabilisce che: “Il titolare di un diritto di proprietà industriale può chiedere che sia disposta l'inibitoria della fabbricazione, del commercio e dell'uso di quanto costituisce violazione del diritto secondo le norme del codice di procedura civile concernenti i procedimenti cautelari. Pronunciando l'inibitoria il giudice può fissare una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata e per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento.”
L’inibitoria ha carattere preventivo, in quanto tende ad impedire la continuazione, o la ripetizione, dell’illecito. Per questo motivo è essenziale, affinché si pronunci l’inibitoria medesima, che al momento della pronuncia il diritto di proprietà industriale non sia ancora scaduto, mentre risulta essere irrilevante la prova della colpa e del danno, i quali potrebbero anche mancare. Invece, l’unico presupposto per l’inibitoria è il pericolo di continuazione o di ripetizione.
La violazione dell’inibitoria è sanzionata dall’art. 388 c.p., che punisce la mancata esecuzione di un provvedimento del giudice.
La legge regola anche la sorte delle “cose” realizzate per, o con, l’attività illecita (mezzi di produzione e prodotti). A tale proposito essa prevede delle sanzioni che hanno una funzione sia preventiva che risarcitoria. Queste misure previste in alternativa l’una all’altra sono:
Tali misure possono riferirsi, oltre che ai beni prodotti in violazione del diritto, ai mezzi di produzione specificamente adibiti a tale attività illecita. Non possono interessare, invece, i mezzi di produzione non specifici che, oltre ad essere adibiti alla produzione illecita, siano utilizzati per attività produttive lecite. È da ricordare che sempre ai sensi dell’art. 124 c.p.i. la rimozione o distruzione non può essere disposta quando le cose appartengano a chi, in buona fede, ne fa uso personale o domestico.
Infine si annota che l’art. 133 prevede la possibilità per l’Autorità Giudiziaria di disporre – in via cautelare – oltre all’inibitoria dell’uso del nome a dominio aziendale illegittimamente registrato, anche il suo trasferimento provvisorio, subordinandolo, se ritenuto opportuno, alla prestazione di idonea cauzione da parte del beneficiario del provvedimento.
Il risarcimento del danno (art. 125 c.p.i.) dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile. Il lucro cessante è valutato dal giudice anche tenendo contro degli utili realizzati in violazione del diritto e dei compensi che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto licenza dal titolare del diritto. La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne, ad istanza di parte, la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano. L'art. 125 c.p.i., richiamando nella prima parte gli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c. “rispecchia l'opinione pacifica della dottrina e consolidata della giurisprudenza secondo la quale la sanzione del risarcimento del danno nell'ambito della tutela dei diritti di proprietà industriale segue le stesse regole della responsabilità extra-contrattuale. Nella seconda parte della norma aveva ritenuto di colmare una vistosa lacuna segnalata dalla dottrina e dalla giurisprudenza disponendo esplicitamente che il titolare del diritto di proprietà industriale può altresì chiedere che gli vengano attribuiti gli utili realizzati dal contraffattore. La reversione degli utili così disposta peraltro sarebbe stata riconducibile nell'ambito delle norme civilistiche sull'arricchimento senza causa e non in quello delle norme sul risarcimento del danno come sanzione della responsabilità extracontrattuale.”
Il controllo di validità del brevetto, nel sistema brevettuale italiano vigente, è puramente eventuale, e viene demandato al giudice ordinario. L’art. 76 c.p.i. tassativamente afferma che: “il brevetto è nullo:
Legittimato a far valere la nullità di un brevetto è chiunque possa essere ostacolato nella sua attività d’impresa dall’esistenza del brevetto nullo. La giurisprudenza ritiene legittimato qualunque concorrente, anche potenziale, del titolare del brevetto, nonché il cessionario ed il licenziatario del brevetto stesso, con o senza esclusiva, sia stato o meno trascritto il contratto di licenza. È invece escluso che possa impugnare la nullità del brevetto uno studioso della materia cui si riferisce l’invenzione, o un semplice consumatore. È possibile, poi, che la questione di nullità venga sollevata, in via d’eccezione, o di domanda riconvenzionale, da chi sia stato convenuto (ad esempio, per contraffazione) dal titolare del brevetto.
Il giudizio di nullità s’instaura con una domanda presentata al giudice competente ai sensi dell’art. 120 c.p.i. La questione di nullità non può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Nel silenzio della legge si ritiene che la domanda vada proposta nei confronti di tutti i legittimati passivi (gli aventi diritto sul brevetto). Una copia dell’atto introduttivo dev’essere comunicata all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, a cura dell’attore. L’onere di provare la nullità incombe in ogni caso su chi ha impugnato il brevetto. Nonostante l’assenza di un esame preventivo sostanziale della brevettabilità dell’invenzione, l’articolo in esame prevede per il brevetto una presunzione di validità. Tale presunzione non ha alcuna ragion d’essere, data l’assenza d’esame, tuttavia ha un forte peso, Poiché impone al giudice della nullità di concludere per la validità del brevetto ogni volta che si ritenga non raggiunta la prova dell’invalidità del medesimo. La sentenza che dichiara la nullità, una volta passata in giudicato, svolge la sua efficacia nei confronti di chiunque (erga omnes). Essa è soggetta a pubblicazione e comporta la radiazione del brevetto. È però importante rilevare che quando la questione di nullità è sollevata come mera eccezione non si ha la radiazione del brevetto. In tal caso il giudice, se riconosce la nullità (inter partes) dello stesso (accogliendo, quindi, l’eccezione del convenuto), si limita a negare che vi sia stata contraffazione, ma non può dichiararne la nullità con gli effetti che abbiamo appena visto. La dichiarazione di nullità si ottiene, invece, proponendo una specifica domanda a norma dell’art. 36 c.p.c. (domanda riconvenzionale). Su quest’ultimo punto, però, non vi è completo accordo in dottrina. La sentenza che dichiara la nullità ha effetto retroattivo, operando fin dalla data del rilascio del brevetto. Tuttavia l’art. 77, lett. a), L.I. dispone che “rimangono impregiudicati gli atti di esecuzione di sentenze di contraffazione passate in giudicato già compiuti”. Ciò significa che l’ordine di pubblicazione della sentenza a spese del soccombente, l’inibitoria ed il sequestro perderanno efficacia dalla data di passaggio in giudicato della sentenza di nullità, così come le decisioni sul quantum non ancora eseguite e le condanne in futuro. Una parte della dottrina ritiene poi che chi sia stato condannato per contraffazione ed abbia subito sanzioni che rimangono ferme a norma dell’art. 77, possa esperire un’azione per il risarcimento del danno contro “il titolare” del brevetto, ove riesca a provarne in concreto il dolo o la colpa e, residualmente, l’azione per l’arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. Per l’art. 77 lett. b), rimangono validi anche i contratti già eseguiti aventi come oggetto l’invenzione; cioè i contratti di trasferimento, se è già stato versato il prezzo, ed i contratti di licenza, i quali però perdono efficacia per il futuro. Tuttavia il giudice, “tenuto conto delle circostanze, può accordare un equo rimborso di importi già versati in esecuzione del contratto”. Nel silenzio della legge, si deve ritenere che la sentenza, che rigetta la domanda di nullità, esplica la sua efficacia solo tra le parti del procedimento, ed ha efficacia di giudicato, sempre inter partes, solo per ciò che riguarda l’inesistenza dei motivi di nullità che sono stati evocati in giudizio. Quando la causa di nullità colpisce solo in parte il brevetto, si avrà una dichiarazione di nullità parziale. Anche la sentenza di nullità parziale ha efficacia nei confronti di chiunque, ex art. 123, e comporta l’obbligo di annotazione sul registro dei brevetti.
Può accadere che venga concesso un brevetto per invenzione per un trovato che è invece meritevole di una diversa protezione brevettuale. In tal caso, sempre che vi sia esplicita domanda giudiziale, anche in via riconvenzionale da parte del titolare del brevetto, la sentenza che accerta la nullità del brevetto per invenzione, e che contemporaneamente accerta la sussistenza dei requisiti di validità di un diverso brevetto, può disporre la conversione del brevetto nullo nel diverso brevetto di cui ricorrono gli estremi (art. 76 c.p.i.). La conversione presuppone che l'autore della domanda di brevetto non sapesse della nullità, e, quindi, presuppone un suo errore scusabile. La conversione, che ha effetto retroattivo ed efficacia erga omnes, può essere disposta solo nei limiti di ciò che risulta rivendicato nella domanda originaria.
L'art. 64 n. 3 della Convenzione di Monaco sul brevetto europeo dispone che: "Ogni contraffazione del brevetto europeo è valutata conformemente alle disposizioni della legislazione nazionale". In proposito è da rilevare che la tutela offerta dal brevetto europeo è efficace in Italia solo se il suo titolare abbia fornito, all'Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, una traduzione italiana del testo nei termini previsti, trascorsi i quali la nazionalizzazione non è più possibile. In fase di ottenimento del titolo, il titolare può far valere la domanda di brevetto europeo contro terzi dopo aver depositato le rivendicazioni presso l'UIBM. Ai sensi dell'art. n. 64 della Convenzione, sono ricompresi all'interno della protezione assicurata da un brevetto di procedimento, anche prodotti ottenuti attraverso tale procedimento. Il brevetto europeo, come nazionalizzato, rientra nel sistema europeo di concessione dei brevetti che prevede, anche in presenza del procedimento di opposizione e di ricorso in sede di procedura europea, una successiva verifica riservata ad un procedimento di annullamento a livello nazionale. Pertanto, i tribunali degli Stati che aderiscono alla Convenzione sul Brevetto Europeo possono dichiarare nullo o parzialmente nullo un brevetto europeo soltanto per il loro territorio nazionale, e limitatamente ai motivi tassativamente indicati nell'art. 138 E.P.C., vale a dire:
Qualora non sia ancora intervenuta la concessione definitiva (ad esempio per un'opposizione in corso) è possibile solo richiedere un accertamento negativo di brevettabilità. Per l'annullamento dei brevetti europei, in Italia, si applica l'art. 59 della L.I. come da art. 10 del D.P.R. 8 gennaio 1979, n.32. Con tale articolo sono stati recepiti tutti i motivi previsti dall'art. 138 E.P.C. sì che ora i tribunali italiani applicano di fatto il diritto europeo. Nei procedimenti di annullamento, i brevetti europei in Italia vengono esaminati in linea di principio come i brevetti italiani; ciò significa, tra l'altro, che il giudice competente determina in modo autonomo anche l'oggetto del brevetto europeo, sulla cui validità egli è chiamato a decidere. Per la valutazione dell'attività inventiva le considerazioni rilevanti per i procedimenti di concessione, sia nazionali che europei, di opposizione e di ricorso, non sono vincolanti per i tribunali italiani anche quando nel procedimento di annullamento tale considerazione rilevante viene presentata come prova. È infatti logico che deve essere fatto un confronto oggettivo con gli argomenti che hanno portato alla concessione del brevetto, anche per il fatto che i brevetti europei non possono essere trattati in modo diverso dai brevetti italiani.
Il diritto esclusivo di utilizzazione dell'invenzione si acquista solo con il rilascio del brevetto. In assenza del brevetto, l'invenzione può trovare comunque protezione in regole di varia struttura. In primo luogo l'ordinamento tutela il c.d. preuso, là dove dispone che "chiunque nel corso dei dodici mesi anteriori alla data di deposito della domanda di brevetto o alla data di priorità abbia fatto uso nella propria azienda dell'invenzione può continuare a usarne nei limiti del preuso" (art. 68). Dalla norma si desume che non esiste per l'invenzione non brevettata una tutela generale di carattere reale, e cioè efficace contro chiunque abbia casualmente appreso il segreto o lo abbia acquisito in buona fede da chi lo abbia illecitamente carpito. L'operatività dell'art. 68 presuppone che l'altrui brevetto sia valido sotto il profilo della novità: il preuso, pertanto, non deve aver comportato la divulgazione del trovato. Per poter godere della tutela offerta dal diritto al preuso è necessaria una utilizzazione industriale protratta per un certo periodo di tempo ("…nel corso dei dodici mesi anteriori alla data di deposito della domanda di brevetto o alla data di priorità…"). Il preutente, attraverso il preuso, non acquista un diritto di esclusiva concorrente con quello del brevettante, ma semplicemente si rende immune da successive pretese di quest'ultimo, e nei soli limiti del preuso effettivo, senza possibilità di cessione di tale diritto se non con l'azienda. Ne deriva che il preutente non è legittimato all'azione di contraffazione contro terzi utilizzatori dell'invenzione. Riassumendo, la tutela accordata dall'art. 68 è condizionata da una effettiva utilizzazione dell'invenzione nella propria azienda; insufficiente, pertanto, è la semplice conoscenza del trovato, o l'esistenza di seri preparativi di effettiva utilizzazione dello stesso, o un uso in via sperimentale o compiuto in ambito privato, ed a fini non commerciali. L'onere della prova del preuso è posto a carico del preutente. Contenuto della tutela di cui all'art. 68 è la facoltà di continuare ad usare l'invenzione nei limiti del preuso. L'estensione della tutela va determinata con riferimento ai limiti quantitativi e qualitativi della pregressa utilizzazione.
L'art. 25 c.p.i. dispone che il marchio è nullo se:
Accanto alle ipotesi di nullità, la legge disciplina anche casi di decadenza. Il caso senz'altro più importante è quello di decadenza per non uso, prevista dall'art. 26 c.p.i. ove il marchio non venga utilizzato entro cinque anni dalla registrazione, ovvero se l'uso venga sospeso per un periodo ininterrotto di cinque anni. Per evitare la decadenza l'uso del marchio deve essere effettivo, quindi non meramente simbolico, sporadico o per quantitativi di prodotto irrilevanti. L'uso, poi, deve essere fatto dal titolare del marchio, o con il suo consenso. Il marchio decade anche nel caso della c.d. volgarizzazione, cioè nel caso il marchio "sia divenuto nel commercio, per il fatto dell'attività o dell'inattività del suo titolare, denominazione generica del prodotto o servizio". In questo caso stabilire quando possa dirsi che un marchio si è volgarizzato a causa dell'inattività del suo titolare non è difficile: la trasformazione del segno in denominazione generica del prodotto è agevolata dal fatto che dei terzi comincino ad utilizzare il marchio per indicare i propri prodotti, analoghi a quelli del titolare. In questo caso, se il titolare non reagisce anche giudizialmente, si potrà ritenere che la volgarizzazione dipende anche dalla sua inattività. Più difficile è stabilire quando la generalizzazione possa imputarsi all'attività del titolare. In linea di massima, ciò si verificherà nelle ipotesi in cui il titolare usi egli stesso il proprio marchio come denominazione generica del prodotto. La decadenza del marchio è poi prevista per sopravvenuta idoneità dello stesso a indurre in inganno il pubblico e per sopravvenuto contrasto con la legge, l'ordine pubblico e il buon costume. Legittimato ad agire per ottenere la declaratoria di nullità o di decadenza del marchio è chiunque vi abbia interesse, ogni concorrente che trovi nel marchio un possibile ostacolo alla sua attività. L'azione di nullità o di decadenza può essere proposta sia in via principale sia in via riconvenzionale dal convenuto nel giudizio di contraffazione. La sentenza che accerta la nullità o la decadenza passa in giudicato con effetto erga omnes.
Un marchio non registrato è tutelabile quando presenta tutti i requisiti richiesti per i marchi registrati: novità, originalità e liceità. In giurisprudenza si è sostenuto che l'interruzione del preuso in pendenza di registrazione dello stesso segno da parte di un concorrente fa venir meno nel preutente il diritto a perseguire nell'uso del segno; ciò sia nell'ipotesi di preuso con notorietà generale, sia nell'ipotesi di preuso con notorietà locale. Ai fini della tutela del marchio non registrato non è sufficiente la mera adozione di un segno distintivo, ma è indispensabile farne un uso effettivo. L'uso del marchio deve essere intenzionale e continuo, non precario né sperimentale, occasionale o casuale. Il sorgere del diritto su di un marchio non registrato presuppone un'impresa in attività. Controverso è se l'uso pubblicitario del segno abbia rilievo ai fini dell'acquisto della tutela. La dottrina è orientata in senso positivo. Non così la giurisprudenza prevalente, la quale ha tenuto fermo il principio secondo cui la notorietà, che giustifica la protezione del marchio di fatto, è quella derivata dalla conoscenza effettiva del prodotto contraddistinto, corrispondente alla diffusione dello stesso. Nella valutazione del grado di notorietà raggiunta dal segno, occorre tener conto anche della sua forza espansiva, della sua naturale area di espansione. Ad esempio, una notorietà localizzata in più zone distanziate può essere ritenuta indice di un processo di espansione in atto. L'estensione dell'uso del marchio deve essere valutata con riferimento al momento della presentazione della domanda di registrazione di un successivo marchio confondibile e non a quello della concessione del relativo brevetto.
È pacifico che l'onere di provare l'uso del marchio è del preutente. L'uso deve essere accertato in riferimento alla vendita effettiva del prodotto, in quanto la tutela del marchio di fatto trova la propria giustificazione nella notorietà acquisita presso il pubblico dal prodotto contraddistinto da quel determinato marchio.
Molti autori affermano l'esistenza di un diritto assoluto sul marchio non registrato. Altri, negando tale carattere, affermano che quest'ultimo andrebbe individuato sotto il profilo della concorrenza sleale.
La giurisprudenza ha equiparato la nozione di marchio registrato a quella di marchio non registrato; comunque non ha mai esitato a ricorrere ai principi generali in tema di marchio ove sorgano problemi in tema di marchio di fatto. Tuttavia, è prevalente l'affermazione che la tutela del marchio non registrato deve essere ricondotta all'art. 2598, n. 1 c.c., là ove vieta di fare uso di segni distintivi confondibili con quelli legittimamente usati da altri.
Per costante giurisprudenza, e secondo una parte della dottrina, chi abbia fatto localmente uso di un marchio ha il potere di inibire, negli stessi limiti, l'uso di altrui posteriori marchi registrati che siano con esso confondibili. Anche il cessionario di un marchio non registrato può avvalersi dell'uso anteriore fatto dal cedente ai fini del computo dell'anteriorità. Infine, si ritiene che anche in relazione al marchio non registrato, il preutente possa estendere l'impiego anche ai prodotti affini a quelli per cui è stato usato inizialmente, e possa impedire ad un successivo registrante di usare il segno per le merci che presentino un rapporto di affinità con quelle che hanno formato oggetto del preuso.
In assenza di brevettazione, l'inventore può contare solo sulla protezione offertagli di fatto dal segreto (artt. 98 e 99). Il segreto, però, delinea una protezione di mero fatto, la cui efficacia è tale a seconda dei casi, e che comunque è caratterizzata dall'imprevedibilità della sua tenuta. L'aspetto negativo del segreto è rappresentato dalla pressochè totale inesistenza di una protezione contro terzi che, senza commettere concorrenza sleale, siano pervenuti alla possibilità di individuare il trovato in tutte le sue caratteristiche e di riprodurlo. La tutela offerta dal segreto è relativa, nel senso che è limitata ai soli rapporti con soggetti determinati che si trovino con l'inventore in un particolare rapporto. Oggetto di questa tutela è ogni conoscenza tecnica riservata, brevettabile o non brevettabile. Essa si indirizza, innanzitutto, nei confronti di coloro cui l'invenzione sia stata comunicata o data in licenza e che siano contrattualmente tenuti a mantenere il segreto su di essa e a non farne uso. Inoltre, detta tutela si indirizza nei confronti di coloro per i quali un tale obbligo di riservatezza sia legalmente imposto e sanzionato dall'art. 98, dall'art. 2105 c.c. e dall'art. 623 c.p. Recita infatti l'art. 2105 c.c.: "il prestatore di lavoro non deve ... divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa o farne uso in modo da potere recare ad essa pregiudizio". L'art. 623 c.p. prevede la reclusione fino a due anni per chi riveli segreti industriali. I soggetti individuati dalle norme sono i collaboratori dipendenti dell'imprenditore ed i collaboratori autonomi, ma anche i soci di società di persone e gli amministratori di società di capitali. La violazione dell'obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. comporta l'applicazione di misure disciplinari e l'obbligo al risarcimento dei danni, e può dar luogo al diritto di recesso del datore di lavoro (artt. 2118-2119 c.c.). Nei rapporti fra imprenditori concorrenti potrà invocarsi la tutela offerta dall'art. 2598 n. 3 c.c. Ciò sia in ipotesi di vero e proprio spionaggio industriale, sia, secondo una certa giurisprudenza peraltro non totalmente accolta, in ipotesi di ex dipendente che, pur in assenza di vincolo di riservatezza a lui imposto (ex art. 2125 c.c.), riveli al nuovo datore di lavoro segreti facenti parte del patrimonio aziendale dell'ex datore di lavoro da lui appresi nel corso del pregresso rapporto di lavoro. La giurisprudenza tende poi a considerare atto di concorrenza sleale l'induzione del prestatore di lavoro alla violazione dell'obbligo di fedeltà (induzione all'inadempimento), facendo rispondere ex art. 2598, n. 3 c.c. anche il prestatore quale complice dell'imprenditore concorrente. Inoltre, l'invenzione non brevettata e utilizzata in regime di segreto non gode di altra tutela nei confronti dei terzi. In conclusione, sia chi abbia concepito autonomamente la stessa invenzione, sia chi ne abbia avuto legittima conoscenza, sarà libero a sua volta di attuarla e di imitarla anche servilmente e, qualora ne ricorrano gli altri presupposti, di continuare in tale utilizzazione pur dopo che essa sia stata brevettata. In questo caso, una tutela contro l'imitazione servile è concessa solo se questa concretizzi un'ipotesi di concorrenza sleale. Ciò avviene nel solo caso in cui, a causa dell'imitazione servilmente condotta dei soli elementi formali ed esteriori del prodotto concorrente, vi sia possibilità di confusione circa la provenienza dei prodotti delle aziende concorrenti. Un problema distinto e risolto in senso negativo sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina è, se possa reprimersi ex art. 2598 n. 3, l'imitazione servile non confusoria degli altrui trovati non brevettati e/o non brevettabili.